venerdì 29 marzo 2013

American Life


Un film di Sam Mendes con Jhon Krasinski, Maya Rudolph. USA, 2009.


Si chiama Away We Go, è stato presentato all'Edimburgh International Film Festival e tra i produttori figura lo steso Turtletaub di Little Miss Sunshine e Safety Not Guaranteed. Per la regia di colui che dopo American Beauty ha scalato l'olimpo del cinema internazionale fino ad arrivare a dirigere il recente Skyfall, in Italiano, American Life.

Si nutre d'infinita tenerezza la storia d'amore fuori dai cliché di due bizzarri e giovani promessi genitori confusi, Verona e Burt (Maya Rudolph e Jhon Krasinski), che dopo aver appreso la non programmata lieta notizia partono in viaggio per gli Stati Uniti a cercare il loro posto al sole: il luogo migliore per far crescere la creatura che attendono con ingenua dolcezza e che li renderà senza dubbio i migliori genitori possibili.
Ce ne andiamo. Phoenix-Tucson-Madison-Montreal-Miami.
Queste le tappe di un percorso di vita familiare intorno al mondo, alla ricerca di risposte che non arrivano nonostante la continua speranza di due genitori impreparati che non hanno ancora perso la fantasia per sperare nel megio e credere nelle promesse allo zucchero, sotto le stelle, fatte su un tappeto elastico davanti ad alberi d'arancio, ananas e banane di plastica. 

E lo sguardo materno di lei che guarda il suo romantico uomo contemporaneo fragile e sensibile è tra le migliori sensazioni che un film del genere possa offrire in segno di vero amore: chiacchierano perdutamente confidandosi senza limiti né segreti le proprie paure, ed è così che si costruisce una solida relazione condita dall'amabile cinismo di lei sapientemente dosato al goffo humour di lui. Scherzano e donano leggerezza alle proprie vite non avulse dai problemi della contemporaneità, escogitando un fedele gioco di attenzioni e intime convenzioni con le quali si divertono e fanno divertire dando spettacolo di se stessi in un mondo meno ammaliante di loro e ancora inesplorato.
Un modo naif, colorato e sbarazzino di raccontare le storie, quello di Mendes, che rende perfettamente riconoscibili le sue scene insolite, iconiche, dall'estetica un po' pop, un po' sgangherata e on the road: che sia la scena di Verona e della sorella nella vasca ba bagno d'esposizione a raccontarsi i ricordi del passato, o le filosofiche metafore dell'amore familiare come pancakes tenuti insieme solo da litri di sciroppo d'acero, ogni oggetto e ogni colore trovano il proprio posto come, in fondo, i due fantastici protagonisti che dopo svariate (dis)avventure (tra cui quella con la “cugina” di Burt – ottima maggie Gyllenhall, hippie sfegatata mamma senza passeggino) scoprono qualcosa di cui in cuor loro, inaspettatamente, erano già certi.

Più che un film sulla crescita dei due protagonisti (già maturi nel temere una loro possibile immaturità e nello scandagliare continuamente, sempre più affiatati, le proprie debolezze interrogandosi su se stessi e sui propri sentimenti) lo definirei un film sulla crescita del mondo intorno ad essi, sulla loro missione nell'aver sparso un po' della loro complice verità tra i giardini d'America sotto una colonna sonora da amare fino all'ultima nota, in gran parte composta da favolosi e intimi brani di Alexi Murdoch, indipendente cantautore inglese la cui calda voce un po' malinconica e il sound molto indie hanno reso il film favolosamente degno d'esser anche solo ascoltato, insieme ai classici di Bob Dylan, George harrison, The Stranglers e Velvet Underground: possibile resistervi?
























martedì 26 marzo 2013

Nobody Walks


Un film di Ry Russo-Young con Olivia Thirlby, Rosemarie DeWitt, John Krasinski. USA 2012


Realizzato con il supporto del Sundance Institute e presentato al Sundance 2012, dove era in nomination per il Gran Premio della Giuria, Nobody Walks è il quarto lavoro della giovanissima, appena trentunenne, regista indipendente americana Ry Russo-Young, scritto in collaborazione con Lena Dunham.
Martine (Olivia Thirlby) è una regista 23enne newyorkese che viene ospitata a Los Angeles da una famiglia pronta ad aiutarla per la sonorizzazione del suo film sugli insetti.
Ingenua giovane donna sparuta in un mondo che crede di avere in pugno con la potenza propria solo di un'energica ventenne in pieno processo creativo, si accorgerà presto di quanto pesanti possano essere le conseguenze per chi superficialemente, pensa solo a prendere dalla vita ciò di cui necessita senza porsi ulteriori domande.
Martine, in preda alla passione, rischia di sfasciare una famiglia profondamente già destrutturata e decadente: una sana collaborazione si trasforma in sesso clandestino nelle stanze insonorizzate di un sound designer disponibile (John Krasinski) e del suo assistente sexy, mentre insetti frenetici ed in bianco e nero si agitano su superfici precarie sotto suoni stranianti che sanno d'equilibri spezzati.
Un bell'inizio, una coralità eterogenea che svela i suoi segreti ed intrighi solo gradualmente, con cauta linearità: se apparentemente, nei primi minuti, si fatica ad inquadrare una famiglia tanto allargata, ogni cosa si rivela da sé a tempo debito, rendendo la trama una bella storia in progress, mai noiosa o prevedibile.
La mano di Lena Dunham si cela dietro alla sessualità, anche qui come in altre opere da lei scritte, vissuta senza pensiero, quasi con disinvolta indifferenza, naturalmente onnipresente ma non volgare.
Brava Olivia Thirlby che dona al suo personaggio sorridente ed introspettivo la forza del diamante, duro e inscalfbile, ma comunque delicato e bisognoso di cure mentre sua perfetta antagonista, Rosemarie DeWitt, è la fredda moglie di Patrick, in preda alla frustrata rassegnazione osserva il suo uomo, sedotto ed abbandonato, perso nello sdegno di una compagna ormai silenziosa che lascia parlare gli occhi.
John Krasinski, ottimo interprete fidanzato nella vita con l'Emily Blunt che inYour Sister's Sister era la sorella di Rosemarie DeWitt (con quest'ultima oltre che qui, lo abbiamo visto recentemente Promised Land di Gus Van Sant) è lo stesso bravo protagonista, nel 2009, di American Life, ma in questo film parrebbe leggermente sottotono, quasi alla ricerca del suo personaggio, probabilmente poco approfondito dalle sceneggiatrici nonostante rappresenti, invero, l'unico e principale perno attorno cui si consumano storie e tradimenti.
Personaggi secondari ma importantissimi (i figli) finiscono per fare da corollario alle vite dei protagonisti, dovendosela spesso cavare da soli per difendersi da un mondo mai troppo generoso, anche nei confronti dei più innocenti.

domenica 24 marzo 2013

Your Sister's Sister


Un film di Lynn Shelton con Emily Blunt, Rosemarie DeWitt, Mark Duplass. USA, 2011.



E' stato ufficialmente selezionato (tra gli altri) sia al Sundance Film festival che al Tribeca Film Festival 2012 e rientra a tutti gli effetti nel genere/movimento cinematografico più indie e squattrinato (?) del cinema contemporaneo: il mumblecore.
Jack (Mark Duplass) è un giovane uomo sofferente per la perdita del fratello da cui non sa riprendersi, mentre Iris, sua migliore amica ed ex ragazza del defunto, cerca di riportarlo in sè mandandolo a rilassarsi e a pensare lontano dai problemi, in una vecchia casa di famiglia circondata dalla natura selvaggia di un'isoletta non lontana ma assai tranquilla e totalmente avulsa dal contesto cittadino.
Jack imbraccia la sua vecchia bicicletta rossa e dunque parte alla volta della casa nel bosco, sfrecciando su deserte strade, nei tramonti americani su acque limpide di laghi o mari misteriosi ma, giunta sera, arriva a destinazione e scopre che l'abitazione è lungi dall'essere vuota e desolata.
Si tratta della sorella omosessuale di Iris, Hannah, che dopo aver rotto una relazione di sette anni trova in Jack un buon confidente compagno di tequila con cui condividere i propri dispiaceri.
Un grande scherzo cosmico li unisce per una notte ma l'indomani sopraggiunge Iris e la strana coppia si trasforma in un trittico d'anime confuse destinato alla deflagrazione.
Ma è sorprendente scoprire quanta comprensione, nonostante il dolore, possa produrre il vero amore, quello covato per anni e mai confessato, pronto ad essere rivelato. E poi, si sa, i legami familiari sono duri a spezzarsi e due sorelle in crisi che si confidano di notte, si cucinano pancakes vegani e malriusciti a colazione non potrebbero mai serbare tanto rancore.


Una poetica storia di uomini e donne che non si lasciano andare, di fratelli e sorelle che si confondono, di solitudini che si agganciano nel comune dolore delle perdite, ruotando su se stesse, sfiorandosi con la leggerezza di chi non ha paura di uscire dagli schemi ed è pronto ad amare, a proprio modo, nonostante le vite complicate.
Emily Blunt e Rosemarie DeWitt, splendide sorelle d'america, incantano lo spettatore con il proprio codice di comunicazione, fatto di sguardi, piccole attenzioni e complici ricordi: una bella fotografia di una quasi-famiglia che si assesta con la speranza di uno dei finali più fastidiosamente aperti della storia del cinema!
L'autrice e regista Lynn Shelton torna a dirigere il grande Duplass già diretto nel 2009 in Humpday. Dividendosi tra cinema indipendente e serie tv (ha diretto anche episodi di Mad Men e New Girl) fa scoprire con finezza la grande abilità (comune a pochi) di far parlare i silenzi dei suoi personaggi, rendendo i dialoghi necessari, mai verbosi, ironici e, nonostante la loro intrinseca amarezza, piacevolmente umoristici. 





giovedì 21 marzo 2013

Safety Not Guaranteed


Un film di Colin Trevorrow con Aubrey Plaza e Mark Duplass. USA, 2012.


E' l'esordio alla regia del californiano Trevorrow, è stato presentato al Sundance 2012 dove è stata premiata la sceneggiatura ed è ispirato ad un episodio realmente accaduto.


Safety Not Guaranteed prende spunto dall'annuncio realmente pubblicato nel 1997 sul Backwoods Home Magazine (l'autore di tale annuncio in persona è, tra l'altro, presente nel film in un cammeo): ma qui non si bada a scherzi, la storia inizia ed è subito mistero.
Tre inviati di una rivista (un redattore sfaticato e due stagisti in balia del proprio lavoro, Arnau e Darius) partono alla volta della tranquilla cittadina Ocean View per incontrare l'autore del messaggio misterioso su cui devono lavorare. 
Kenneth (Mark Duplass) è un uomo sfuggente e di poche parole, seguito e sorvegliato da agenti governativi per aver commesso dei reati e, convinto di poter viaggiare nel tempo grazie ad una potente macchina costruita negli anni, trova subito una complice confidente in Darius che, sfruttando le sue potenzialità di donna, intraprende una profonda conoscenza con lui per poter ottenere il maggior numero di informazioni possibili in vista dell'articolo da scrivere con i colleghi. Ovviamente la conoscenza si evolverà in un sentimento più complesso che, anche se con qualche colpo di scena, non renderà l'intera trama particolarmente originale fatta eccezione per il finale.
Interessante, pur tuttavia, la tematica principale del film: la sensazione di straniamento e di incompatibilità dell'uomo nei confronti del mondo contemporaneo, probabilmente troppo sbrigativo e mai comprensivo nei confronti delle anime più sognatrici, fragili o riflessive, quelle che finiscono poi per essere liquidate come "strane e temibili entità" da cui fuggire.
Attore, regista, musicista e montatore nella vita, Mark Duplass, oltre ad essere stato  l'attore, nel film, che più di tutti ha reso il suo personaggio estremamente interessante, conferendogli un'umanità surreale ma pur sempre lucida anche se ai limiti della follia, si ritrova nei crediti anche come executive producer insieme al fratello con cui, nel 2003, ha fondato una compagnia di produzione. 
Fondatore, nei primi anni del 2000, anche del movimento di cinema indipendente americano denominato mumblecore, è uno tra gli esponenti di spicco del nuovo cinema contemporaneo realizzato in digitale, con attori non professionisti e bassissimi budget. Vero cinema indipendente chiamato da molti critici anche metodo slackavetes in riferimento sia al maestro Cassavetes, sia ai film di dialogo amati così tanto da Linklater, di cui si cita in particolare Slacker, risalente agli anni novanta, quattro anni prima del grande successo diBefore Sunrise
Tra i produttori (e già dalla locandina, ma forse è un caso, si capisce) anche Turtletaub e Saraf, già insieme per Little Miss Sunshine: tante premesse valide per un film che pur nella sua godibilità, non scalda il cuore come ci si aspetterebbe da una crew così culturalmente stimolante ed avvezza a successi indie-internazionali. 
Particolare attenzione alla soundtrack ricca di brani e sonorità frizzanti che fanno da sfondo alle visionarie riunioni segrete tra Kenneth e Darius, ai loro allenamenti nel bosco e alle serate romantiche sulla spiaggia, lontano dal mondo, fatte di studi e programmi per la partenza: destinazione anno 2001. Anche se fino alla fine nessuno ci crede.



lunedì 18 marzo 2013

Young Adult


Un film di Jason Reitman con Charlize Theron. USA, 2011



Ottima commedia amara per Reitman che, dopo il cinico e leggero humor di Juno, inizia a riflettere sul passato e sul presente, con la disillusione di un'aspettativa infranta.

Una donna senza qualità, eroina mediocre e irrisolta, destinata alla perpetua frustrazione.
Questa la donna-diablo dipinta dall'angelica mano di Diablo Cody, che, dopo Juno, torna a scrivere per Reitman, componendo un ritratto disarmante di Mavis, suo struggente ed infelice alter-ego incarnato da Charlize Theron: una stanca 37enne ex reginetta della scuola che, dopo essere scappata dalla provincia ed aver posto deboli radici a Minneapolis, è costretta a volgere lo sguardo al passato.
Luoghi comuni crescono: la bionda bad girl psicotica del liceo con tendenze autolesioniste non è cambiata e sotto le note di una colonna sonora perfettamente nostalgica dal sapore indie, intraprende il suo viaggio verso la redenzione, pronta a riconquistare, in nome di un brivido quasi dimenticato, il ragazzo che la faceva sognare.
L'ingenua normalità della vita di provincia torna ad essere fonte di continue illusioni e delusioni per Mavis che, se agli occhi di chi è restato risulta una vincente, non può che constatare sempre più il suo ridicolo fallimento.
Seppur maggiormente stereotipato e, dunque, più banale, ecco aggiunto un nuovo personaggio al vagamente poetico “gruppo degli inetti” di musiliana ispirazione, sempre pronto ad accogliere senza pietà le inabilità alla vita dell'uomo contemporaneo, tanto ripiegato su sé stesso da diventare a sua volta niente più che serica nullità.

E' un po' un tema ricorrente in questo tipo di cinema il cosiddetto ritorno all'ovile, quel viaggio che si intraprende verso il proprio passato, le origini o i luoghi d'infanzia: un viaggio che ha esiti diversi per ogni personaggio, come se nel gran giorno del giudizio universale si dovesse ritornare indietro ed attendere un'eventuale pena da espiare. E se la scrittura di Diablo Cody non può che essere una garanzia per la buona riuscita di una sceneggiatura, il vero punto di forza sta nell'accoppiata vincente di due estetiche che scivolano insieme sulle strade d'america al tramonto con immagini pop di nastri e musicassette che ballano sotto le nostalgiche note un po' sgualcite delle 4 Non Blondes o dei The Replacements.

Solitudini disordinate in viaggio.

domenica 17 marzo 2013

Hello I Must Be Going


Un film di Todd Louiso con Melanie Lynskey e Christopher Abbott. USA, 2012

Ha aperto il Sundance Film Festival 2012 per la regia del poco più che quarantenne attore-regista americano Todd Louiso al suo terzo lungometraggio: Hello I must be going (“Come la prima volta” in Italia) è una commedia romantica di tutto rispetto, divertente e pungente, sulla presa di coscienza di sé anche e soprattutto quando ogni certezza sembra in procinto di crollare.
Perchè tutto rimanga uguale tutto deve cambiare si direbbe parafrasando il celebre scrittore italiano, nonché scorrendo la trama di un film dissacrante che vede Amy (Melanie Lynskey) donna sull'orlo di un crisi i nervi, tradita e neo divorziata costretta a tornare a casa dei genitori, intraprendere un'intima amicizia con Jeremy (Christopher Abbott, il fidanzato di Marnie nella serie americana Girls di Lena Dunham) attore diciannovenne tenero e tormentato creduto gay dalla madre ed intento a lasciarglielo credere.
Una differenza anagrafica importante ed un ritorno all'istintività dei sentimenti, per una boccata d'ossigeno fin troppo a lungo negata all'interno di rapporti soffocanti destinati al fallimento.
Lei è una Bridget Jones contemporanea, la cui unica grande abilità sembra quella di distruggere ogni rapporto sano della propria vita: ingenuamente goffa, si barcamena tra gli inconvenienti di un'esistenza che le è scappata di mano e lo fa con grande ironia e affilato cinismo che la vedono scoppiare grottescamente e divertita in fragorose risate nei momenti meno opportuni, prendendosi anche gioco dell'ipocrisia e del bigottismo della sua famiglia, dai quali, ed è proprio al limite, cerca di non farsi inglobare.
Un progressivo spogliarsi da tutti i risentimenti covati negli anni insieme all'anima simile che la porta a comprendere la sua vera essenza di donna all'apparenza fragile ma più che consapevole di se stessa. Una tematica quanto mai attuale quella del ritorno al nido dei genitori dopo un tentativo di vita fallito e la conseguente amarezza del dover tornare ad essere ospitata in una casa che ormai è troppo diversa da come ce la si aspetta.
Nella colonna sonora brillante ed allegra spiccano i diversi brani scritti e cantati da Laura Veirs, cantautrice folk americana dal sound sbarazzino e leggero quasi a ricordarci la fantastica soundtrack di Juno, le cui sonorità si avvicinano amabilmente.

sabato 16 marzo 2013

Un Giorno Questo Dolore Ti Sarà Utile


Un film di Roberto Faenza con Toby Regbo. Italia, USA, 2011

A forza di dirmi che sono un disadattato mi hanno convinto che lo sono”.
E' così che inizia Un giorno questo dolore ti sarà utile per la regia di Roberto Faenza, ottima versione cinematografica dello splendido romanzo di Peter Cameron, autore tra i più acclamati della letteratura americana contemporanea, secondo solo al maestro del silenzioso verso Rymond Carver.
James Sveck (Toby Regbo) è un diciassettenne introverso e sensibile, profondamente perduto in un mondo privato ed inaccessibile, le cui misteriosa chiave è detenuta orgogliosamente solo dall'anziana e dolce nonna (Ellen Burstyn), unica amica e confidente silenziosa.
Tra fragilità ed irriverenza, la personalità di James, complessa ed affascinante come i personaggi (ri)belli e dannati di un film di Gus Van Sant o Bertolucci, si trova a scontrarsi con le superficiali vite maldestramente condotte da una madre plurisposata (Marcia Gay Harden), un padre goffo e un po' cialtrone (Peter Gallagher) e una sorella isterica, civetta e supponente (Deborah Ann Woll).
Ma tra gite inquietanti, compagni euforici e canti goliardici in pullman gremiti, a James non resta che crogiolarsi nella propria anormalità senza ritmo né perché, sfuggendo alla mediocrità da cui è circondato con una corsa incessante oltre i propri confini, metafora scontata della società contemporanea.
Ed inizia a correre per davvero al fianco di una life coach che, rendendolo “muscoloso ed assennato”, inizierà a farlo parlare a ritmo di jogging ed endorfine con le quali eludere la sua giovane confusione.
Come in ogni bella storia, romantica e sognante, non manca la scena intima e tenera del ballo, in questo caso tra James e la nonna, topos poetico ed europeo di un cinema che vale: rappresenta, in un climax potente pur nella sua semplicità, la soluzione migliore ad una ricerca turbolenta e profonda tra anime perdute che ogni tanto, fortunatamente, si scelgono diventando elette compagne di viaggio, sotto le note di una colonna sonora delicatamente introspettiva di fattura italiana.
E' così che il turbamento adolescenziale di un ingenuo e solitario ragazzino perduto in una New York snob ed aristocraticamente intellettuale, un po' falsa e un po' borghese come in un libro di Updike, si fa vero amore, ripreso da un occhio sensibile ad un'estetica metropolitana dal sapore indipendente.
Una produzione italo-americana ben riuscita ma passata un po' in sordina: girato interamente a New York sull'ex ferrovia da pochi anni riqualificata e diventata parco pubblico nonché spazio dedicato anche all'arte contemporanea, è il primo film ad essere stato ospitato in questo luogo non-luogo dimostratosi perfetto coronamento di una storia già potente di per sé diventata oramai, un cult d'eccellenza da non perdere.
Un bel misto tra il cinema d'autore italiano, fatto di movimenti consapevoli, non patinati, sempre significativi ed il respiro internazionale di una storia ben recitata da un cast assortito e valido dalle ambientazioni boho-chic dei quartieri artistici di una città protagonista mai invadente.


venerdì 8 marzo 2013

Liberal Arts


Un film di Josh Radnor con Josh Radnor, Elizabeth Olsen. USA, 2012

Opera seconda per Josh Radnor, autore, regista ed interprete di Liberal Arts nonchè del suo esordio alla regia di due anni precedente Happythankyoumoreplease, entrambi presentati al Sundance Film Festival, rispettivamente nel 2010 e nel 2012.
Radnor è Jesse, nostalgico trentacinquenne di New York che ritorna in Ohio, dove ha frequentato il college, per ritrovare uno dei professori prediletti con cui ha mantenuto rapporti di confidenza ed amicizia sincera. Amante della storia e della letteratura, Jesse vive in uno splendido caos-cosmo personale, immerso nei grandi autori classici o contemporanei che in qualche modo plasmano la sua visione del mondo ed il suo modo di rapportarsi ad esso: durante il suo soggiorno rivive gli anni spensierati del college ricordando con malinconia le lezioni sui poeti romantici, le scoperte artistiche e culturali che gli hanno cambiato la vita e le facili ed inutili relazioni sprecate in un luogo tanto culturalmente stimolante quanto sentimentalmente vuoto. 
La stessa insoddisfazione risiede anche nell'animo puro di Zibby, studentessa di teatro diciannovenne con cui Jesse si ritrova a discorrere amabilmente e lungamente tra i parchi lussureggianti e l'intimità delle librerie del campus: stimolanti chiacchierate che si trasformano, una volta tornato a New York, in lunghe lettere scritte a mano sulla rivelatrice e sublime musica di Beethoven o su ottocenteshi personaggi tormentati in cui riconoscere le proprie inquietudini.
Una tenera amicizia al confine tra il vero amore e la sensualità intellettuale di due corpi imprigionati nei legittimi dubbi e nei sensi di colpa preventivi, quelli che un adulto chiamerebbe moralità, e si fa presto amaro quel sentimento a cui è impossibile trovare un posto tra i cuori affamati e dolenti, che pur volendosi, non possono amarsi.
Zibby e Jesse, dunque, si ritrovano, neanche a volerlo, nei panni di due amanti bohémien tormentati, di quelli un po' tristi che si guardano negli occhi in silenzio eppur si parlano, dedicandosi poesie disperate sul loro stesso impossibile amore, sotto gli occhi di chi non comprende la complessità di un rapporto che non consumandosi, è condannato a vivere in se stesso e ad ardere tragicamente per l'eternità.
Un piccolo ma significativo ruolo appartiene a Zac Efron, Nat nel film, onirica e grottesca presenza misteriosa che si aggira solitario nottetempo tra le panchine del college filosofeggiando con Jesse, raccontando incredibili storie ed infondendo coraggio agli innamorati, folle cantore delle stranezze del mondo.
Una leggerezza amabile rende quest'opera una delicata coccola per l'occhio e per il cuore, senza scadere nell'inutile stucchevolezza di tante commedie simili, bensì aprendosi allo stimolo culturale più di quanto non farebbe un film realizzato proprio a tale scopo.
Un film di dialogo sulla disillusione nei confronti di un futuro incerto e frustrante, sulla maturità ritrovata di un uomo che non approfittandosi di una fugace (?) infatuazione, dimostra il proprio rispetto a quella donna che entra con magnetico sorriso nel suo cuore sdolcinato ancora ingenuo e sognatore, una storia d'equilibri turbati, di anime affezionate e tenerezze mai sprecate.
Piacevole scoperta di un nuovo regista emergente che si presta a se stesso per un personaggio divertente ed ironicamente spaesato, combattuto e confuso dalle titubanze dell'uomo contemporaneo in un film perfettamente riuscito.

mercoledì 6 marzo 2013

The sessions


Un film di Ben Lewin con John Hawkes, Helen Hunt. USA, 2012


Presentato in anteprima al Sundance 2012 dove ha ricevuto il Premio del Pubblico ed il Gran Premio della Giuria, ha appena visto trionfare i suoi protagonisti anche agli Independent Spirit Awards 2013.
In principio fu il titolo “The surrogate” poi tramutato in un più morbido “The Sessions”, come le sessioni d'amore possibili, al massimo sette, tra una terapista sessuale ed un giornalista disabile bisognoso d'avvicinarsi al sesso.
Mark (John Hawkes), infatti, ha trentotto anni, uno spirito intellettualmente nonché artisticamente vivace, un corpo quasi interamente paralizzato dalla poliomielite intrappolato in un polmone d'acciaio e legittime necessità sessuali dalle quali, ad un certo punto della sua vita, comincia ad essere profondamente turbato.
“Amava ed era amato” si dice di lui, tragico eroe alla ricerca di una libertà spirituale, uomo puro dalla sensibilità e dall'umorismo dolenti, dalla voce sforzata, fragile ed amorevolmente infantile.
L'ingenuità di un poeta libero, con un grande cuore premuroso e la carezza nello sguardo pronta a sfiorare i visi delle donne di cui sinceramente si innamora e alle quali dedica pensieri struggenti.
Spaventato come un bambino di fronte all'ignoto, teneramente docile ed inerme tra le mani della terapista Cheryl (Helen Hunt) a cui può solo rivolgere sguardi tanto ingenui quanto ammirati, inizia un percorso di coscienza di sé e del proprio corpo che lo renderà un uomo completo non senza i grandi turbamenti, i dubbi e le difficoltà del ritrovarsi a gestire, ormai adulto, emozioni tanto nuove quanto contrastanti.
Perché di maturità si tratta, quando lui stesso si accorge che la paura che prova nei confronti del sesso e di se stesso, è la sua paura di crescere, di lasciar svanire, in qualche modo, un po' di quel suo sguardo innocente e positivo, allegro, nei confronti del mondo che tanto lo rende speciale; una paura che non prescinde neanche dalla sfera religiosa e dalla salda fede di Mark, che sconvolto dal sesso e bisognoso d'approvazione divina, troverà il sostegno sperato in Padre Brendan (splendido William H. Macy), confidente silenzioso e buon ascoltatore pronto a festeggiare con lui l'amore ed i progressi sessuali.
E che sia un tipico fenomeno di tranfert o vero e doloroso sentimento, colpisce la grande finezza, dignità e solenne razionalità con cui entrambi i protagonisti lo lasciano svanire, forse avendone timore, fino a che anche per Mark non sarà tempo di qualcosa di speciale: finalmente poesie ricambiate, non più solo corteggiate, tristemente intrise di colonia o vane speranze.
Sereno ma triste epilogo per un uomo di cui innamorarsi senza tentennamento e per un film doloroso ma dalla leggerezza sublime.
Un po' "L'uomo che amava le donne" e "Casanova" per il romanticismo, un po' "Lo scafandro e la farfalla" per la gravità.
John Hawkes, irriconoscibile e commovente, con la sua struggente performance, ha ridato vita, come nessun altro sarebbe riuscito a fare (fatta eccezione probabilmente per Sean Penn che sarebbe stato in egual modo perfetto), alla storia vera di Mark O'Brian, giornalista e poeta paralizzato dalla poliomielite su cui, già nel 1996, la regista californiana Jessica Lingman Yu aveva girato un documentario.
Un soggetto molto amato, dunque, dal cinema che in entrambi i casi ha saputo approfondire al meglio il mistero, lo straniamento, l'umorismo e l'amarezza di un tema tanto importante quanto sottovalutato quale la sessualità nella disabilità, unita per di più ad un'esigenza religiosa.
Un tema complesso affrontato con estrema finezza ed impressionante realismo dal bravo regista australiano-americano Ben Lewin, tanto da rendere una storia drammatica a tratti divertente, il cui protagonista stesso si fa eroe leggero che senza piangersi addosso o prendersi sul serio, riesce a farsi amare, grazie alla sua struggente onestà, da chi lo circonda, mai per pietà quanto per il grande apporto umano che il suo cuore e la sua mente regalano alle anime che incontra e che, in qualche modo, non sanno più uscire dalla sua vita.

martedì 5 marzo 2013

The Giant Mechanical Man


Un film di Lee Kirk con Jenna Fischer, Chris Messina. USA, 2012

E' il debutto dietro alla macchina da presa di Lee Kirk, già scrittore di cortometraggi e commedie, è stato presentato al Tribeca Film Festival di New York (che vanta, tra i suoi fondatori nel 2002, anche Robert De Niro) ed è stato defito una dramedy ovvero una commistione di contenuti divertenti e seri in bilico tra commedia e dramma romantico.

Siamo in un'anonima città contemporanea mai protagonista nel corso del film, attraversata da corpi non meglio identificati dagli occhi tristi e dalle camminate lente. Janice è una single non poi così disperata che rivendica il suo diritto di scegliersi un uomo secondo le propri esigenze senza dover assecondare la sorella invadente ed impicciona che, con amore sì, malauguratamente la vorrebbe accasata con un noioso e sedicente scrittore dalle dubbie capacità oratorie da lui stesso tanto millantate.
Ma l'uomo tanto sperato arriva, sotto metite spoglie: l'amore non mente mai, dunque, che egli indossi tuta e scopa per pulire le gabbie di un zoo (galeotta fu la scimmia molestata) o l'uniforme argentea dell'uomo di latta, l'artista silenzioso agli angoli delle strade testimone nascosto delle vite che lo sfiorano, Janice non si sbaglia.
Prendi un pennello e pochi trucchi: così un mimo trampoliere per le vie della fredda città si ritrova a scandire la vita di una donna romantica alla ricerca di un senso da dare alla propria esistenza, ammesso che sia effettivamente necessario farlo.

Una commedia romantica dal risvolto banalmente sdolcinato, che rinchiude in sé gli stereotipi classici della comedy tradizionale riletti però in chiave melensa, ai limiti del lamento e del piangersi addosso, senza l'ironia e l'irriverenza che spesso rendono il genere piacevolmente brillante.
Un inizio da film indipendente, con Tim (Chris Messina) che si trucca per mostrare se stesso al mondo indifferente, e che purtroppo poi sfuma nella piatta normalità della commedia convenzionale.
Una soluzione banale che non impedisce, però, l'apprezzamento generale del film, che vuole indagare l'infelicità e l'alienazione dell'uomo postmoderno che, trottola su se stesso, non riesce a scorgere nulla che non sia la sua stessa scia di tristezza che lo avvolge, soffocandolo, in un vortice difficile da arrestare. 

lunedì 4 marzo 2013

2 Days in New York

Un film di Julie Delpy con Julie Delpy, Chris Rock. Francia, Germania, 2012

E' stata presentata al Sundance 2012 e non ha ancora una data d'uscita in Italia: una nuova vibrante e brillante commedia politicamente scorretta diretta dall'attrice regista francese Delpy, naturalizzata americana, che dona al film quella giusta aura poetica europea unita alla comicità esilarante della comedy d'oltreoceano.

Sono passati cinque anni, è tornata a New York, ha un figlio ed un nuovo fidanzato. L'ombroso e paranoico Jack con cui sembrava si fosse riconciliata alla fine di "2 Days in Paris" è uscito di scena, così come le lunghe passeggiate di chiacchiere dai colori europei e i discorsi su quel nulla divertente e satirico che avevano divertito tanto il pubblico francese (fatta eccezione per qualche critico d'estrema destra che aveva definito il film ancor peggiore di Borat).
Un sequel coraggioso che non si trascina dal primo film solo per piacere bensì si ricrea facendo rivivere  al microcosmo di personaggi già conosciuti, ma profondamente cambiati, o comunque estremizzati ognuno nella loro principale peculiarità caratteriale, una nuova avventura politically scorrect. 

C'è una novità però, ed è il nuovo uomo di Marion, Mingus: divertente hipster afro-americano con un nome dalla facile e volgare rima che cognata e fidanzato non mancheranno di ricordare, lavora in radio, scrive per The Voice e si trova a dover eroicamente fronteggiare la famiglia di lei in visita per due giorni. Una famiglia eccentrica e confusionaria che inevitabilmente porterà scompiglio all'interno dell'idilliaco equilibrio della loro casa in cui, mai soli, vivono anche i due rispettivi pargoletti nati da precedenti tormentate relazioni.

Lei è diventata una mamma zen completamente cambiata rispetto agli agitati discorsi amorosi sulla Senna del film precedente, con un figlio cui badare e condomini agguerriti a cui, per quieto vivere, spudoratamente mentire. Ed il santo uomo che la affianca, dalle espressioni da macchietta, ironicamente e volontariamente estraniato da un contesto così grottesco nel quale viene trascinato, sembra essere l'unica persona razionalmente sana in grado di mantenere le fila di una famiglia tanto sgangherata, fatta da un padre (il vero padre della regista) ninfomane e dalle abitudini poco ortodosse e una sorella fidanzata ma avvezza al flirt facile, tutti impegnati a mettersi nei guai cogliendo l'occasione di una due giorni fuori porta lontana dalle responsabilità (?) della vita quotidiana.

Anche a New York i giochi di parole e la comedy degli equivoci trovano la loro più piena espressione grazie alla sceneggiatura bilingue che scoppia quando le lingue si incontrano e scontrano creando non pochi spassosi siparietti.
Un nuovo piccolo gioiellino diretto dalla Delpy che ancora una volta gioca sul contrasto culturale e sui cliché, sfatandoli o esagerandoli, immersa nella frenesia delle relazioni trans-culturali in cui non tanto la diversità bensì la bizzarra follia (che non ha paese), la fa da padrone.

domenica 3 marzo 2013

2 Days in Paris


Un film di July Delpy con Julie Delpy, Adam Goldberg. Francia, Germania, 2007.

Lei è una splendida donna indipendente ed emancipata dai tanti amanti passati che ritornano in discorsi verbosi e coinvolgenti come quei film chiacchieroni di Linklater di cui lei stessa è protagonista.

Pare che in Francia si faccia così, a detta della bionda ed intellettuale Marion (Julie Delpy): si hanno rapporti non meglio identificati con poeti affascinanti scrittori, e subito dopo si rimane amici, come a non osar rompere l'attraente tensione sensuale tra le anime di cui si nutre il mondo.
Parla di filosofia ed arte con il suo attuale e paranoico fidanzato americano Jack, un po' Kerouac un po' Nicholson, non esente, anche lui, dalla nevrosi metropolitana: scongiurando tragici attacchi terroristici e provando a non pensare al passato vivace della compagna, fa sfoggio di curiose psicomanie anch'esse perdute nei solari quartieri bohémien di Parigi ed impazienti di ritrovare la loro malsana regolarità in una New York più sicura.
Lui le scatta foto nel mezzo di affascinanti ed antichi set cinematografici d'essai in cui lei gioca a fare Marlon Brando, passeggiano discorrendo amabilmente sui massimi sistemi mentre nel fast food in cui Jack spera di trovare ristoro “una fatina gay scesa dal cielo come un vegetariano schizofrenico” dà fuoco al locale.
Due giorni impegnativi per un americano in crisi a Parigi e mentre a casa lui non sa decidere quali occhiali lo faranno assomigliare di più a Godard, lei vuole fare l'amore.
Un film che è una passeggiata divertente ed illuminante attraverso una città protagonista che tenta di distruggere i suoi sprovveduti avventori nonché le loro relazioni sessualmente spregiudicate e costellate di buone intenzioni.
Le relazioni complicate sono la materia più interessante per romantiche commedie di dialogo dal risvolto anche cupo che reca in sé i dolori degli amanti che tanto si vogliono quanto si respingono.
Ed è nell'ultima scena che è racchiuso il segreto del cuore: nell'ultimo ciak, come un ultimo tango, si consumano le storie d'amore che un'ora son folli e subito dopo son nulla.

Julie Delpy, autrice, regista ed interprete del film, impone il suo sguardo sul mondo così innocente e incantevole che i suoi personaggi, quasi autobiograficamente inventati, diventano una proiezione di lei raccolta in riflessione, al fianco di uomini sempre più irrisolti, fragili ed innamorati.
Un cinema ispirato ai grandi maestri della commedia più delicata, dalla finezza sopraffina tra cui, oltre a Woody Allen, spicca l'Eric Rohmer delle quattro stagioni, autore francese tra i massimi esponenti della Nouvelle vague di cui, per tutta la carriera, è rimasto fedele cantore. Tra l'estrema comicità dell'uno e il dramma, la profondità esistenziale dell'altro, la Delpy si pone nel virtuoso mezzo in cui sapientemente mixa al punto giusto umorismo e sarcasmo con ironica sensibilità, tra la tagliente satira socio-politica e l'indagine sui clichè francesi ed americani.
La sua voce narrante e le riprese movimentate e i pochi tagli nei dialoghi danno un ritmo inconfondibile alla storia che, se molti hanno paragonato alla saga di Linklater, Julie Delpy precisa: “...è più una commedia, sono due stili cinematografici diversi: Prima dell'alba e Prima del Tramonto sono due film romantici”.
Ancora una volta un'attrice straordinaria (imperdibili le sue interpretazioni nei Tre colori Film blu, Film Bianco, Film Rosso di Kieslowski ed in generale tutta la sua carriera d'autore) dimostra un talento registico da sostenere con forza e che ci conduce all'attesissimo sequel presto in recensione.

Ciliegine

Un film di Laura Morante con Laura Morante, Pascal Elbé. Francia, 2012

E' l'esordio alla regia che ci si aspettava da colei che ha reso se stessa, ottima attrice mai scontata, una vera e propria icona nel panorama del cinema italiano e francese: Laura Morante. Un'icona molto amata ma mai onnipresente, timidamente riservata e raccolta, oculata nelle proprie scelte di carriera e arricchita nel talento da tante collaborazioni con i più grandi nomi del cinema contemporaneo.

Ha detto di essersi ispirata all'ironia di Woody Allen per il suo debutto dietro alla macchina da presa e come lui, ha giocato con il proprio personaggio un po' buffo e un po' intellettuale per confezionare una romantica comedy dal piglio francese.

Non si parla di mirtilli ma di ciliegine: sono il frutto più buono dal fiore candido e sensuale ma nonostante la loro intrinseca dolcezza possono diventare un vero problema se la superficialità degli uomini al cospetto di donne intelligenti ed esigenti si fa grave ed insopportabile colpa da espiare. 
Quando la donna in questione poi risponde al nome d'Amanda, il problema potrebbe farsi insormontabile.
E' la stessa regista ad auto-dirigersi in un ruolo dalla simpatia contagiosa che la porta ad indossare i panni di una fragile e nevrotica creatura, spudoratamente romantica dall'ironia pungente, bisognosa d'attenzione ma allo stesso tempo sfuggente ed androfobica.
E come il Woody single e disperato di molti suoi spassosi film, anche Amanda si rimette alla coppia di amici fidati impegnati nel non facile ruolo d'improbabili cupidi.
Si indaga il mistero che sussiste inesplorato ed irrisolto tra i due vecchi ed opposti mondi che incontrandosi, fin dalla notte dei tempi, generano tanto chiasso senza mai trovare la pace agognata.
Il flebile confine tra commedia ed amara realtà è il vero punto di forza di un film romantico anche nei colori, nelle ambientazioni, nei concerti, nella pioggia parigina e nei bistrot della sera. I dialoghi rivelatori sono il motore della sottile bellezza dell'opera, delicati e mai banali, divertenti, appartenenti ad adulti ancora bambini, alla ricerca di un'insperata felicità, come i protagonisti di un romanzo di formazione.
Una bella scelta quelladi Laura Morante che da attrice ha reinventato la propria necessità narrativa così come in precedenza hanno fatto i maestri che fin dagli inizi l'hanno iniziata alla carriera d'autore che si è poi costruita, primo tra tutti il Nanni Moretti di Sogni D'oro, Bianca e La stanza del figlio, anche lui da sempre impegnato nella recitazione, direzione e produzione delle proprie opere filmiche.
Dunque una necessità autoriale che prima o poi accade, quella di una regista dimostratasi capace di dirigere i tanto adulati esseri speciali, facitori di miracoli, che son per lei gli attori, nonostante difficoltà produttive che hanno reso una scelta quasi obbligata (la co-produzione italiana prevedeva un'attrice del bel paese, chi meglio della regista?) la vera carta vincente per un'opera dal sapore europeo.